Curiosità e Consigli

Quanto peso può sostenere una lattina? Il fenomeno del buckling spiegato

Noi tutti, chi più chi meno, istintivamente comprendiamo che il modo più semplice per rompere un oggetto è quello di fletterlo. Pensate, ad esempio, a quando da bambini si rompeva un ramoscello piegandolo sulle ginocchia per poi brandirlo come fosse una spada. Questo gesto che compivamo più o meno inconsciamente in realtà ha un solido fondamento scientifico.

Infatti, per rompere un corpo snello – ovvero più lungo che largo – la sollecitazione più efficace è la flessione come ci conferma la meccanica oltre alla nostra intuizione. Tuttavia, ci sono anche altri modi per sollecitare l’oggetto in esame oltre alla flessione: potremmo torcerlo con due mani in direzione opposta l’una rispetto all’altra, potremmo tirarlo per le sue estremità, oppure – perché no? – potremmo anche comprimerlo. Fra tutte le possibilità appena elencate, però, probabilmente nessuno sceglierebbe di comprimere il ramo per romperlo, d’altronde è poco pratico schiacciare un corpo snello. In qualche modo non riconosciamo come rilevante la compressione del ramo, ma le cose stanno davvero così? In realtà no, e il motivo prende il nome di buckling, o se preferite “instabilità elastica” in italiano. Questo fenomeno se trascurato può essere causa di guasti anche molto seri in svariati ambiti come vedremo più avanti nell’articolo.

Il fenomeno del buckling

Quando un corpo viene sottoposto ad una sollecitazione che tende a comprimerlo, in linea di principio esso mantiene la sua forma fintantoché la resistenza meccanica del materiale che lo compone glielo permette. Tuttavia, esiste sempre un valore della sollecitazione per cui il corpo cede improvvisamente perdendo la sua stabilità strutturale – come nel caso dei corpi snelli che tendono a flettersi da un lato – anche se la forza a cui è sottoposto non supera i suoi valori di resistenza. Sostanzialmente il corpo non si “rompe” a causa dello sforzo che deve sostenere nell’immediato, ma perde la sua funzionalità e la rottura può quindi seguire come conseguenza. Questo fenomeno viene chiamato buckling e fu teorizzato per la prima volta nel XVIII secolo dal celebre matematico svizzero Eulero, il quale fornì come risultato dello studio l’omonima formula.

Questa elegante e compatta relazione matematica permette di prevedere il carico massimo a compressione Pcr che un corpo snello può sopportare prima di incorrere nel fenomeno del buckling. Aldilà dei vari termini che compaiono nella formula di Eulero, la cosa interessante da notare è che il carico massimo che il corpo può sopportare si riduce all’aumentare della sua lunghezza. Perciò, oggetti particolarmente lunghi e sottili sono proni a cedere a causa del buckling piuttosto che per schiacciamento. Pensate per esempio agli spaghetti crudi, è praticamente impossibile comprimere uno spaghetto senza che questo fletta di lato prima di rompersi.

Il buckling di un corpo snello avviene al raggiungimento del carico critico Pcr e si manifesta con la flessione del corpo, il quale passa da uno stato di compressione ad uno stato di flessione.

Lo studio del buckling è di grande importanza nel mondo delle costruzioni e più in generale della meccanica, perché anche quando un componente è in grado di resistere alle sollecitazioni per cui è stato progettato da un punto di vista di resistenza del materiale, lo stesso non è detto se si considera la possibilità che esso cambi la sua forma a causa del buckling. Un esempio dell’impatto che questo fenomeno può avere nel concreto è lo Station Square Collapse, un incidente avvenuto nel 1988 a Burnaby, una città della British Columbia in Canada. Quel giorno, pochi minuti dopo l’inaugurazione di un nuovo supermercato, una delle travi portanti del parcheggio coperto cedette improvvisamente causando la caduta di ben 595 m2 di soffitto. Fortunatamente non ci furono vittime, ma 21 persone rimasero ferite. Le perizie tecniche che seguirono all’incidente individuarono la causa di tutto proprio nel buckling di una trave portante.

Il crollo del parcheggio interrato avvenuto a Burnaby nel 1988 a causa del buckling di una trave. (Fonte: pressbooks.bccampus.ca)

L’esempio della lattina

Dopo aver adeguatamente introdotto il fenomeno dell’instabilità elastica, possiamo ora considerare un interessante caso del quotidiano: una lattina vuota sottoposta all’azione di una forza di compressione. Anche se l’oggetto in questione può sembrare banale, calcolare la sua “resistenza” al buckling è tutt’altro che semplice. Una lattina per bevande, infatti, è caratterizzata da spessori molto sottili che possono arrivare anche al decimo di millimetro. Inoltre, le lattine sono oggetti piuttosto tozzi dal momento che la loro altezza non è poi così grande rispetto alla loro larghezza.

Tutte queste caratteristiche fanno sì che il buckling di una lattina non possa essere semplicemente studiato a mezzo della formula di Eulero presentata poco sopra, ma necessiti di teorie ben più complesse che si basano sul comportamento delle piastre e dei gusci. Fortunatamente, però, in passato quei gran cervelli della NASA hanno svolto un enorme lavoro scientifico nell’integrare la teoria dei gusci con dati sperimentali sul buckling di cilindri sottili, fornendoci così delle formule che possiamo utilizzare per stimare il comportamento della lattina. Prima di addentrarci nei risultati, però, è bene porre l’accento sul fatto che assimilare una lattina di birra ad un cilindro ideale è solo un’approssimazione, ma può comunque darci per lo meno dei buoni valori di partenza. Per ottenere stime più accurate le uniche soluzioni sarebbero quelle di affidarsi a test sperimentali, oppure ai più moderni software di simulazione strutturale.

La lattina può essere approssimata da un “guscio” – ovvero una sorta di piastra di piccolo spessore – in cui la forza di compressione F è applicata alle sue estremità come forza distribuita f. Possiamo prendere in considerazione il caso della lattina vuota (cilindro a sinistra) oppure anche il caso in cui è sigillata e sotto pressione (cilindro a destra).

Detto ciò, consideriamo una generica lattina vuota da mezzo litro avente diametro 70 mm e con uno spessore di un decimo di millimetro. In questo caso, la forza necessaria a provocare il buckling delle sue pareti è di circa 1000 N, più o meno il peso esercitato da una persona di 100 kg. Pensate che idealmente per deformare la stessa lattina in assenza di buckling servirebbero 660 kg, ma questo chiaramente non avviene in realtà. Tutto ciò vale per una lattina perfettamente cilindrica, ma come ben sappiamo di perfetto in realtà c’è ben poco e perciò anche un minimo difetto sul corpo della lattina può innescarne all’istante la deformazione. Difatti, basta provare a mettere un po’ di peso sulla lattina e deformarne leggermente un lato con un qualsiasi utensile per vedere collassare rapidamente la sua struttura.

Un’altra considerazione interessante che possiamo fare è quella di analizzare la lattina quando è piena e sottopressione. I valori di pressione a cui si può trovare una lattina per bevande gasate sono ampiamente variabili, tuttavia, possiamo prendere come valore di riferimento 380 kPa (o 3,8 bar se preferite). In quest’altro caso, la pressione interna provocata dai gas resiste alla forza di compressione esterna aumentando enormemente la forza richiesta per provocare il buckling della lattina fino a 25.800 N (2580 kg). Va detto che lattina sottopressione, prima ancora di deformarsi a causa del buckling, in realtà esploderebbe per via dell’effetto combinato di pressione interna e schiacciamento. Perciò stiamo parlando di un caso più teorico che reale.

Articolo a cura di Axel Baruscotti