Benelli Sei, la moto 6 cilindri in pieno stile ‘rapinatore’ per competere con la Honda CB | Fu un grande fracasso, ecco perché
Benelli Sei, la moto 6 cilindri che doveva competere con la Honda CB. Qualcosa è andato storto.
La Benelli 750 Sei è sicuramente una moto che merita di essere rivalutata e di entrare a far parte, se non della propria collezione, almeno della doverosa considerazione da parte di ogni appassionato. Non è esente da difetti e, commercialmente, non ha avuto il successo sperato all’epoca della sua presentazione, ma motociclisticamente parlando ha segnato un’epoca. La Benelli Sei è figlia dell’era De Tomaso, quando il magnate italo-argentino riuscì a far convivere sotto lo stesso tetto la Benelli – acquisita nell’estate del 1971 – e la Moto Guzzi, “fagocitata” un anno dopo. Due marchi storicamente antagonisti sul mercato e nelle corse, costretti improvvisamente nella prima metà degli anni Settanta, a condividere le medesime strategie aziendali.
De Tomaso, a cui bisogna riconoscere un indubbio coraggio, voleva stupire rinnovando la gamma delle due case, proponendo modelli particolari che facessero discutere. In quest’ottica nasce l’idea della Sei. Dopo il dominio dei bicilindrici americani, tedeschi ed inglesi, i giapponesi spopolavano con il quattro cilindri. Così, per essere competitivi, in Benelli si risparmia sui tempi della progettazione, sui costi dell’assemblaggio e purtroppo anche sulla scelta dei materiali e della componentistica.
Peccato, perché inizialmente gli elementi per la buona riuscita del prodotto c’erano tutti. Incaricato della progettazione del motore era il valente tecnico Piero Prampolini, già in Parilla, Mondial e MotoBi. Due grossi nomi in campo automobilistico, Vignale e Ghia, avrebbero dovuto occuparsi del design. I partner tecnici annoveravano la Brembo, che realizzava due grossi dischi anteriori dedicati, e la Pirelli, incaricata di studiare pneumatici adatti alle prestazioni della moto.
Alla Marzocchi ci si rivolgeva per le sospensioni e alla Veglia Borletti per avere una strumentazione originale. Tuttavia, il fattore tempo fu determinante. Prampolini venne invitato dalla dirigenza a copiare il 4 cilindri Honda di 500 cc, a cui andavano aggiunti due cilindri per creare la 750 Sei. La moto prese rapidamente forma e il 27 ottobre 1972 venne presentata alla stampa presso il lussuoso hotel Canal Grande di Modena, quartier generale di De Tomaso.
Il grande fracasso
Lo stupore e l’entusiasmo iniziali diminuirono di mese in mese: il tanto atteso avvio della produzione, promesso per la primavera del 1973, ritardò inesorabilmente per diversi motivi. Innanzitutto c’era il problema del motore. La copiatura era veloce, ma le modifiche necessarie per il trapianto dei due cilindri in più non lo erano altrettanto. Così, pur con grave ritardo rispetto alla presentazione, la 750 Sei venne messa sul mercato nel 1974 accompagnata dalle prime delusioni. Le finiture erano solo discrete, la componentistica di qualità modesta e gli assemblaggi approssimativi.
Ma più preoccupanti erano i problemi meccanici. I difetti di gioventù si tramutarono in problemi più seri: si verificava una precoce usura delle camme, il consumo d’olio non scendeva mai sotto 1 kg ogni 1.000 km, i cilindri pativano fastidiosi trafilaggi e anche le forchette del cambio si consumavano facilmente, compromettendone la manovrabilità fino al bloccaggio. Inoltre, l’impianto elettrico spesso faceva le bizze, soprattutto quando pioveva. Cosa era successo dunque al momento dell’industrializzazione della sei cilindri, dato che i prototipi non andavano affatto male? Una risposta la si trova in parte ripercorrendo le fasi della realizzazione della moto. Il progetto e la costruzione dei primi prototipi avvenivano a Pesaro, sotto la guida di Prampolini che, come detto, sceglieva materiali di prim’ordine per il motore, affidandosi ad aziende specializzate. Tuttavia, al momento dell’industrializzazione, De Tomaso affidò la costruzione del motore alla Moto Guzzi e lasciò a Pesaro il solo assemblaggio. A Mandello si decise di utilizzare il materiale già disponibile o di produrlo in casa per contenere i costi.
Cosa non ha funzionato
Forchette del cambio e ingranaggi vennero realizzati in acciaio al piombo non legato e di conseguenza meno resistente; i pattini dei bilancieri vennero cromati con un procedimento poco raffinato, con il risultato che lo strato di cromo si staccava anche dopo percorrenze modeste e le camme si usuravano precocemente. Questa politica “al risparmio” contribuì ad affossare commercialmente la Benelli Sei, poiché certi difetti, su una moto costosa che doveva rappresentare il massimo della tecnica motociclistica, risultavano inaccettabili. Perché allora acquistarne una oggi? Innanzitutto perché la Sei è un’ottima granturismo e tale va considerata, senza cadere nell’errore dell’epoca e paragonarla a mezzi più sportiveggianti.
In quest’ottica più tranquilla si rivela un’ottima moto. Il motore, oltre ad emettere un sound indiscutibilmente unico, è quasi esente da vibrazioni, elastico e con un buon allungo. La moto, a dispetto delle dimensioni e del peso, è facile da guidare, maneggevole e comoda, esteticamente accattivante grazie al suntuoso impianto di scarico sei in sei di cui è dotata. Grazie ai due potenti freni a disco anteriori e al tamburo posteriore, la frenata è efficiente e sicura in ogni condizione. Non mancano infine prestazioni brillanti: velocità massima di 196,600 km/h ed accelerazione da 0 a 400 metri in 13 secondi con una velocità di uscita di 162,16 km/h. Niente male per una moto che pesa 232 kg e dispone di 63,6 CV a 8.500 giri alla ruota. Oggi poi una moto del genere verrebbe impiegata per percorrenze limitate, il che aiuterebbe a risparmiare la meccanica. Rimane infine un dubbio: la sorte della 750 Sei e, perché no, della stessa Benelli, sarebbe cambiata se si fosse posta maggior cura nello sviluppo e nell’assemblaggio, anche a costo di far lievitare ulteriormente il prezzo di acquisto?